Sono le piante sopravvissute ai bombardamenti atomici di Hiroshima e Nagasaki e grazie a un’iniziativa pro bono lanciano un messaggio di pace nel mondo.
di Cristina Manfredi
Sono le 8:15 del 6 agosto 1945 e nei cieli di Hiroshima sta accadendo qualcosa di inconcepibile fino a quel momento. Il bombardiere americano Enola Gay, pilotato dal colonnello Paul Tibbets, sgancia la prima bomba atomica della storia utilizzata in un conflitto, a cui tre giorni dopo farà seguito il secondo ordigno nucleare che colpirà Nagasaki. L’esplosione, avvenuta a circa 600 metri dal suolo per amplificarne il potere distruttivo, uccide all’istante tra le 70 e le 80mila persone (quasi tutte civili), radendo al suolo grosso modo il 90% degli edifici, compresi tutti i templi della città, senza contare il gigantesco numero di feriti e di persone che nel tempo subiscono gravi conseguenze per l’esposizione alla radioattività. Basta una semplice ricerca in rete per vedere le immagini ancora oggi sconvolgenti della desolazione di quei luoghi dopo il massacro. Una città annientata, una cancellazione totale di uomini, donne, bambini, case e palazzi, un mondo che conosce solo i toni di un bianco spettrale, del grigio, del nero, finché qualcosa la primavera successiva accade. In mezzo a tutto quel nulla, germogliano piante.
Nel raggio di due chilometri dall’ipocentro di Hiroshima, proprio dove tutti concordavano che nessun vegetale avrebbe potuto crescere per almeno 75 anni ci sono degli alberi, morti solo all’apparenza. Molti sono segnati da ferite che si trasformeranno nel tempo in cicatrici. Quelli più vicini all’esplosione si sono piegati, ma sono vivi e per la popolazione superstite diventano il primo vero simbolo di speranza. Oggi sono 160 di poco meno di trenta specie differenti tra cui fichi, bamboo, ciliegi, ginko, camelie, canfore, peonie, azalee, salici piangenti. Di quest’ultimo tipo, per esempio, ce n’è uno che si trova a soli 370 metri dall’ipocentro e che resiste ancora oggi. I giapponesi nutrono per quelle piante un rispetto assoluto, hanno anche dato loro un mome collettivo e cioè Hibakujumoku, una parola che racchiude due concetti, albero e colpito dalla bomba A. Li hanno censiti, in certi casi li hanno dovuti spostare per favorire la ricostruzione, li accudiscono oggi come allora con la massima cura e lo stesso accade per i circa 50 Hibakujumoku di Nagasaki. Ma delle creature tanto speciali possono dare qualcosa in più alla Terra.
A esserne convinte sono due donne. Una è Nassrine Azimi, ex direttrice della sede di Hiroshima di UNITAR, Istituto delle Nazioni Unite per la formazione e la ricerca, autonomo dalle Nazioni Unite e dedicato alla ricerca in ambito scientifico e formazione di personale politico, economico e diplomatico di cui oggi è advisor, oltre che docente presso la locale Shudo Unversity. L’altra si chiama Tomoko Watanabe, Executive Director della organizzazione non governativa ANT, Asian Network of Trust a Hiroshima che educa alla compassione le nuove generazioni giapponesi e si occupa di avviare progetti di peace-building in paesi come l’Afghanistan, il Pakistan, il Nepal e il Bangladesh prendendo ispirazione dallo spirito di riconciliazione dei sopravvissuti all’atomica del ‘45.
Nel 2011 hanno dato vita alla Green Legacy Hiroshima Initiative, una realtà volutamente piccola, ma con un compito importante, piantare nel mondo semi di Hibakujumoku, come spiega Azimi a Slowear Magazine.
Che cosa vi ha spinte a creare Green Legacy Hiroshima?
N.A.: Dopo aver concluso il mio operato come direttrice di UNITAR a Hiroshima, volevo occuparmi di qualcosa di significativo. Incontravo molte persone in visita e spesso mi domandavano cosa avrebbero potuto fare una volta a casa per tenere vivo il messaggio di Hiroshima. Gli alberi sono una testimonianza potentissima, eppure gli stessi abitanti della città non li consideravano. Anche la co-fondatrice Tomoko, nata e vissuta qui, ammette che quasi non li vedeva, li considerava una decorazione. Forse era necessario un occhio esterno per poterli vedere davvero.
Di che cosa si occupa l’organizzazione?
N.A.: L’attività in sé è semplice: raccogliamo alcuni semi delle varie specie e li mandiamo in diverse parti del mondo perché vengano piantati. È il messaggio che ci sta dietro a rendere questi gesti carichi di valore.
E sarebbe?
N.A.: C’è una forte relazione tra gli Hibakujumoku e tutto ciò che sta accadendo oggi nel mondo, a cominciare dalla rinnovata minaccia nucleare. Con il nostro lavoro vogliamo dire al mondo che chi riceve i semi si assume una responsabilità, quella di portare avanti il loro lascito. Qualche tempo fa è arrivata una delegazione di scienziati tra i più esperti al mondo in fatto di piante e a un certo punto li ho accompagnati a vedere uno dei miei posti preferiti. Si tratta di un boschetto che sta accanto a Peace Avenue, una delle strade più movimentate di Hiroshima. Sono alberi di 9 speci differenti e sono sopravvissuti al traffico oltre che alla bomba. Ho domandato a una delle studiose come mai e lei, immediatamente mi ha risposto: “Perché sono insieme, le loro radici sono insieme”. Gli Hibakujumoku sono come un’orchestra e per questo ce l’hanno fatta, ecco il messaggio.
Come funziona la richiesta?
N.A.: Ci piace dire che questo è un impegno millenario, perciò selezioniamo con cura i destinatari dei semi. Tendiamo a scegliere solo istituzioni come i giardini botanici e le università, perchè sono quelle che resistono nel tempo. Anche in zone critiche, come l’Afghanistan dove abbiamo spedito dei semi, è difficile che gli atenei chiudano. Microsoft ce li aveva richiesti, ma non ce la siamo sentita di mandarglieli.
Una volta ottenuto il vostro assenso, cosa succede?
N.A.: Stabiliamo quale specie può adattarsi al clima del luogo che li riceverà, li raccogliamo, li inviamo e poi chiediamo dei resoconti a intervalli regolari. Ogni sei mesi devono mandarci foto e dettagli e li incoraggiamo a creae delle targhe esplicative. Non è sempre facile, in Italia, per esempio, dopo la pandemia è impossibile recapitare direttamente i semi. Allora ci appoggiamo a un giardino botanico in Irlanda del Nord che li riceve e poi li distribuisce per noi.
C’è una fase di questo processo che la emoziona di più?
N.A.: Quella della raccolta. Gli Hibakujumoku sono piante danneggiate, portano i segni delle bruciature e hanno molte cicatrici, eppure sono così produttive e generose nel darci i loro “bambini” da spedire nel mondo. Nonostante tutto quello che hanno subito, gli alberi non odiano nessuno.