Ha lasciato il posto fisso per inseguire le passioni. Oggi è tra i volti televisivi più noti del food italiano, scrittrice di best seller di cucina, ha aperto un laboratorio di ceramica, tiene corsi e convegni. Ma Chiara Maci non dimentica gli inizi: «perché è il percorso che definisce l’arrivo».
È un volto familiare per gli appassionati di cucina e lifestyle, ha mille attività, tutte di successo, ma continuate a chiamarla blogger, anzi foodblogger. Non solo perché è tra le più influenti in Italia, con milioni di follower sui social e una carriera decennale che l’ha portata dai fornelli al piccolo schermo, ma perché «non è più un termine dispregiativo: quando ho cominciato e andavo alle conferenze stampa, i giornalisti mi trattavano male e i cuochi forse anche peggio, ma è al blog che devo tutto».
Da quel blog Chiara Maci ha trasformato una passione personale in un business di successo. Nata ad Agropoli, in provincia di Salerno, e cresciuta a Bologna, oggi vive a Milano, con uno sguardo sempre attento alla creatività e alla qualità. Anche nella una nuova avventura nel mondo della ceramica, un progetto che unisce dall’altra sua passione per il design e l’artigianato.
Studi in giurisprudenza e marketing in azienda, poi la vita vira completamente. Qual è stato il momento in cui hai realizzato che la tua passione per la cucina poteva diventare una carriera a tutti gli effetti?
CM: Non è stato immediato, ma ho capito presto che giurisprudenza non era il mio futuro. Il mio desiderio da ragazza sarebbe stato fare liceo artistico, per poi passare a scienze della comunicazione. Invece i miei, severi, mi volevano inquadrata e da qui la scelta di giurisprudenza. Così io, che i miei compiti li ho sempre portati a termine, ho preso la laurea. Ma il mio vero idolo era Oriana Fallaci, colei che sostengo mi abbia davvero insegnato a scrivere.
Dopo la laurea, il master in media relations.
CM: E da lì il mondo del lavoro: prima in un ufficio stampa, poi al marketing di Sky dell’epoca d’oro con budget illimitati. Mi piaceva molto, ma non abbastanza. Ero determinata a trasformare la passione in lavoro.
E lasciasti il posto fisso.
CM: Allora licenziarsi dal posto fisso era una follia. Mi guardavano tutti esterrefatti, quando dicevo vado ad aprire un catering.
Dal marketing al catering?
CM: Tieni conto che nasco in una famiglia enogastronomi. Io sono sommelier da quando ho 18 anni. Mia madre cucina da dio e ha avuto anche un ristorante a Bologna, mio padre è malato di cucina e conosce tutti i vini, annata per annata. Per la nostra famiglia la cucina è sempre stata cultura. Le vacanze venivano scelte a seconda dei ristoranti da provare, poi si visitava quello che c’era attorno. Perciò ho deciso di mettere a frutto le mie competenze di marketing su me stessa.
Ecco, questo è un tema importante: talento e passione non bastano.
CM: Se non c’è strategia, l'amore non basta. Credo che la giurisprudenza mi abbia dato le regole e il duro lavoro aziendale il metodo. Ora è la mia forma mentis. Per dire, sono in cucina e davanti a me c’è l’elenco della regole di casa.
Quali sono state le difficoltà che hai incontrato nel costruire un business intorno alla tua attività?
CM: I momenti di crisi sono sempre esistiti nel percorso. Quando ho cominciato a scrivere il blog, non ero inquadrabile in nulla: non avevo ruolo, non avevo studiato alberghiero, non ero giornalista. Scontavo quotidianamente il giudizio della gente. Mollare sarebbe stato facile, ma la forza di continuare l’ho trovata nel ripetermi che lo stavo facendo per me.
Ancora oggi che sono conosciuta, ho scritto cinque libri, sta uscendo un mio romanzo, ho il laboratorio, per tutti sono una blogger. E quando magari vado a un convegno o in tivù e mi chiedono come voglio essere presentata, mi faccio presentare esattamente così.
Spesso ci si inibisce da soli di fronte ai doveri, al mutuo, alle bollette e non si inseguono le vere passioni.
A tutti gli ospiti del tuo podcast Ritratti di famiglia, dedicato alle seconde o terze generazioni aziendali, fai una domanda: che cosa avresti voluto fare nella vita se i tuoi genitori non avessero avuto questa azienda? Molti di loro hanno risposto che avrebbero voluto fare tutt'altro. Tu, invece?
CM: Ora sto facendo quello che sognavo: scrivere il mio primo romanzo. È la cosa più difficile della mia vita, ma è una gioia immensa, che non avrei mai raggiunto senza il resto del percorso. E quando mi chiedono se non faccia troppe cose, io mi arrabbio da morire. È fuori dalla mia natura limitarmi, anche perché scrittura, pittura, modellare, cucinare sono tutte attività legate una all’altra.
Ci sveli qualcosa del tuo romanzo?
CM: Parla di monogenitorialità, una condizione che conosco bene. Ma è la storia di una donna molto diversa da me: non ama la sua vita e non è una donna del fare, ma del subire. Però con la figlia e la linea femminile della famiglia capisce che c’è sempre tempo. Come è successo a me, che oggi scrivo tutto il giorno facendo quello avrei voluto fare da sempre.
Sì, insomma, tutto il giorno con le mia modalità: per esempio, per me è normale alzarmi per andare a impastare le tigelle, poi tornare al computer e rialzarmi a fare una torta. Però la scrittura mi regala una grande libertà. In tutti questi anni ho spinto molto sull’acceleratore del far vedere chi sono e quanto valgo. Oggi sono più equilibrata e scrivere mi evita di metterci sempre la faccia: posso farlo in pigiama, magari struccata. Chi davvero deve mettersi in mostra è la mia protagonista, che amo già moltissimo.
Per gli sportivi, la vittoria è il fatto eccezionale: solo uno vince, dal secondo in giù perdono tutti. Cos’è il fallimento?
CM: Il mio primissimo blog si chiamava «Io in fila». Un concetto così bello che l’ho tatuato sul polso. Perché mi sono sempre sentita in fila. Non sono mai stata prima e amo rispettare il mio turno, che sento che prima o poi arriva, ma senza volerlo affrettare. Arrivare primi senza essere pronti è anche peggio che fallire. Un mese dopo aver aperto il laboratorio di ceramica mi hanno chiesto di partecipare al Salone del Mobile di Milano. Ho rifiutato, non potevo essere pronta. Non so ancora dove arriverò prima. Non gareggio più, da ragazza lo facevo, ora sto scrivendo la mia storia nel mio modo. È un passaggio dell’età.
Quanto conta divertirsi?
CM: Bella domanda. Non sono una che si diverte tantissimo. Io tendo a giustificarmi perché per lavoro giro l’Italia, vedo gente interessantissima, assaggio cibi e vini esclusivi. Spesso mi dico: che figata. La mia psicologa però sottolinea che quello è lavoro, il divertimento è altro. Un capodanno pazzo a Marrakech con le amiche? Non lo faccio da anni. Mi hanno insegnato a mettere sempre davanti il dovere e la famiglia. Se poi si riesce a divertirsi in quel dovere e la famiglia si è fatto bingo. Per ora mi diverto, ma all’altro divertimento ci arriverò quando i bambini cresceranno.
Ci parli della nuova avventura con la ceramica e del progetto Piano Terra?
CM: A pensarci bene, una follia. Due anni fa, in un momento di down psicologico, mi sono iscritta a un corso di ceramica ed è stato amore totale. Lo stesso che ho sentito 15 anni prima per la cucina. Poi, corso dopo corso, ho capito che dovevo fare il salto di qualità: dopo due mesi ho cercato un immobile per il laboratorio, dopo altre due settimane l’ho comprato. È un piccolo spazio in zona Brera, a Milano. Il nome è un lavoro di squadra.
Con chi?
CM: Mia figlia Bianca, 11, e Andrea, 7. Conservo i fogli del brainstorming. Siamo passati da «Il laboratorio della pupù» a «Piano Terra», che è esattamente quello che cercavo e che è nato da un’intuizione condivisa. La ceramica mette tutti sullo stesso piano, è inclusiva, parte da materiali poveri come terra e acqua ma puoi creare tutto quello che vuoi. Inoltre, nulla è mai sbagliato, perché è il tuo pezzo, con la sua anima e la sua originalità. In questo è molto diverso dalla cucina. Se faccio un vaso imperfetto è forse anche meglio, rispetto alla perfezione industriale.
Che cosa hai imparato con l’argilla tra le mani?
CM: La lentezza. Come per la cucina si parte dal toccare l’ingrediente. Io amo impastare pane, pizze e focacce. Anche con l’argilla uso il mattarello e il tagliere. Gli strumenti in cucina e in laboratorio sono simili. Però poi c’è il forno e qui sta tutta la differenza. Quello per la ceramica arriva 1300 gradi e prima di vedere il prodotto finito ci vogliono 45 giorni. Non si può affrettare il processo.
Primi successi?
CM: Per Natale ho consegnato più di 200 piatti. Si capisce che sono all’inizio, ma sono io. Ancora una volta, mi piace il percorso. Nella vita ho fatto 11 traslochi, da una casa in condivisione a quella che ho ora, che mi fa sentire di aver raggiunto degli obiettivi concreti. Lo stesso vorrei fare con la ceramica: far capire il percorso.
E quali sono le tappe principali?
CM: Credo che la ceramica possa rappresentare la chiusura del cerchio aperto dalla cucina. Poter creare personalmente i supporti per il mio cibo, apparecchiare con i miei piatti, fare le alzatine per le mie torte, bere nelle mie tazze. Infine, mi piacerebbe mettere a frutto le mie frequentazioni nell’alta ristorazione, che mi permettono di conoscere gli chef, i loro caratteri, le particolarità e su quello creare pezzi unici per i loro ristoranti.
Qual è il tuo rapporto con Milano? Quanto ha influito questa città sulla tua carriera e sulle tue scelte professionali?
CM: Ci ho scritto decine di post. Milano è la città che ho scelto, ma il mio primo post dopo il master è stato: «Milano me ne vado, perché tu non insegni ad abbracciare le persone». Mi sentivo sola, in una città di soli. Poi dopo un solo anno sono tornata, perché mi mancava. E dopo 17 anni, sono ancora qui.
Cosa ti mancava?
CM: È una città che va conosciuta. È la città che può realizzare i tuoi sogni, ma la devi scoprire. Ancora oggi con mia figlia andiamo a scoprire gli angoli nascosti e trovo quella voglia di crescere che continuo ad avere anche io. Ma soprattutto ho capito che non sono le città che abbracciano, ma le persone. Ed ero io che non sapevo abbracciare.
Hai un posto del cuore?
CM: Diversi. Uno è la Pinacoteca di Brera. Amo quell’atmosfera, quei muri. L’arte mi affascina, anche se una volta dentro a un museo potresti essere ovunque nel mondo. Poi amo il Parco Sempione, che una volta faceva anche un po’ paura, ma oggi è solare e legato a tanti ricordi con i bambini. Poi le chiuse di Leonardo, che vedevo da una finestra in una casa dove ho abitato. O ancora, i Navigli, che frequento meno, ma che sprigionano sempre energia.
Prima di chiudere, ci sveli se esiste un ingrediente che proprio odi?
CM: Ah, le ostriche sono l'unica cosa che proprio non mangio. Come pure non amo le interiora, che non fanno parte della mia tradizione familiare. L’amore per gli ingredienti nasce dalla storia personale. Non a caso, non toccatemi il basilico o la mozzarella di bufala! Dal punto di vista culinario, sono davvero molto «sud». Per me casa è laddove sento il profumo dell'aglio e del pomodorino che soffriggono. Poi magari vado in Piemonte e mi commuovo per dei plin, ma io sono cresciuta in Cilento e, se devo scegliere, cerco quei posti dove la semplicità diventa gusto.
Ultimo viaggio nelle tue passioni: le biografie. Se dovessi scrivere la tua in due righe, come chiuderesti questa intervista?
CM: Chiara Maci, dal diritto alla cucina, passando attraverso il marketing, la televisione, la ceramica. Come qualcuno che cerca la propria strada e alla fine trova la propria storia.