Una pianta in casa ci fa stare bene. Sì, ma perché? Il verde, nella società contemporanea che abbiamo creato, copre meno funzioni della tecnologia. Ma una ci dà beneficio e l’altra ci è utile (con una distinzione non così netta). La ragione è da rintracciare nella nostra storia, come ci racconta lo scienziato scrittore Giuseppe Barbiero.
L’amore e la sopravvivenza. Sono due elementi legati indissolubilmente e in maniera primordiale. Quel tipo di amore che crea una relazione. Relazione tra chi? O, forse, tra cosa? Poco a che vedere con sentimentalismi, qui. “Philía”, in greco, indica l’amicizia, la simpatia, ma anche un’affinità. Ed è di Biofilia che stiamo parlando, della philía per la “bíos”, l’amore per la vita o ciò che è vivo. Una condizione innata, nella nostra natura umana. Che si trova in tutti, in ognuno di noi, tanto da far pensare agli esperti che si tratti di un adattamento evoluzionistico. «L’amore per la vita si fonda sull’empatia e quella per i propri figli ne aumenta il successo riproduttivo. Conoscere come funziona questo adattamento evoluzionistico può aiutarci a stare meglio», spiega Giuseppe Barbiero, professore di biologia all’Università della Valle d’Aosta e autore del libro Introduzione alla biofilia. La relazione con la Natura tra genetica e psicologia. Comunemente, la biofilia è associata al benessere che proviamo guardando una pianta. In un certo senso, il risultato può essere questo, ma il discorso è, in realtà, ben più complesso.
«Generare figli e prendersene cura è la prima e più alta forma di amore per la Natura. L’attenzione, la meraviglia e l’empatia per i figli sono adattamenti fondamentali per la riproduzione nella nostra specie e sono funzioni che possono estendersi e diventare amore per la Natura, di cui i figli sono espressione», spiega Barbiero. «Ma accanto alla riproduzione c’è la biofilia come adattamento per la sopravvivenza: amare la vita favorisce la comprensione dell’ambiente. Ogni popolazione conosce il proprio habitat, le risorse che offre e sa come allestire i propri rifugi sicuri. I rifugi hanno caratteristiche, almeno in parte, ovvie: la luce, la temperatura, la presenza di acqua potabile. Altre invece sono meno scontate, come la presenza di elementi viventi all’interno del rifugio, ad esempio le piante».
In un contesto moderno, la ricerca di un rifugio sicuro non è così complessa, perché abbiamo imparato a piegare la Natura domestica ai nostri bisogni e allontanare la Natura selvatica. Ma non è stato indolore. «Gli esseri umani sono presenti sulla Terra da circa 300mila anni. Per 290mila anni, abbiamo avuto a che fare con la sola Natura selvatica: questo rapporto ha plasmato i nostri sensi e la nostra capacità di lettura dell’ambiente alla ricerca di luoghi sicuri e con sufficienti risorse». Come? Attraverso le piante: un luogo con abbondante verde indica la presenza di acqua, ci spiega Barbiero: «Luoghi dalle tonalità marroni, invece vengono associati a possibili difficoltà di sopravvivenza. Ecco che nel deserto (marrone) si cerca l’oasi (verde)». Per 290mila anni, il cervello umano si è abituato ad associare le piante alla sopravvivenza, alla sicurezza, al rifugio in cui vivere. Poi abbiamo inventato l’agricoltura e abbiamo cominciato a distinguere tra la vegetazione selvatica (che ancora oggi, in un orto, è chiamata “mala erba”) e quella addomesticata. Abbiamo cominciato a vedere il mondo come buono solo nella misura in cui era plasmato dalle nostre mani per le nostre necessità. Il resto era – o, è – nemico. Da qui, le conseguenze ambientali sul mondo attuale sono ben tracciabili, e non solo nella vegetazione, anche nel modo in cui gestiamo gli animali. Questo, però è un altro discorso.
«Gli esseri umani hanno creato le città in cui anche la Natura domestica è stata respinta», prosegue Barbiero. «Oggi, tra strade e palazzi, non è pensabile inserire una fattoria, non ci sarebbero i permessi. Abbiamo creato con le nostre mani un mondo disconnesso dalla Natura». Tuttavia, i nostri sensi sono ancora legati al modo di vivere che i nostri antenati hanno seguito per 290mila anni. Siamo, a tutti gli effetti, loro discendenti. E i nostri sensi hanno bisogno di un contatto continuo, non sporadico, con la Natura. L’ambiente naturale, ricco di vegetazione, resta, per noi, un luogo di benessere. L’esperienza di lockdown ce lo ha mostrato: anche i più incalliti amanti della vita urbana hanno sentito il bisogno di passeggiare in montagna, nei parchi, nei giardini. Ristabilire il contatto perduto con la Natura – un contatto flebile, sì, ma comunque reale – è semplice e, se vogliamo, immediato: basta inserire piante in casa.
«Pensare a quanto possiamo stare senza piante è un ragionare in termini di sopravvivenza concreta», spiega il professore. «Quanto possiamo stare senza aria? Qualche minuto. Quanto possiamo stare senza acqua? Pochi giorni. A digiuno? Un mese. Questo crea un ordine di importanza nei nostri bisogni fisiologici. È interessante notare che la pianta risponde a tutti e tre i nostri bisogni fondamentali: respirare aria ossigenata, trovare acqua potabile e nutrirsi». La fotosintesi clorofilliana operata delle foglie garantisce una qualità dell’aria migliore; steli e rami che crescono verdi comunicano la presenza di acqua; i frutti ci nutrono.
Il contatto permanente con la vegetazione stimola il nostro amore per la vita, la nostra biofilia. Attraverso il contatto permanente si può riportare in superficie questo legame profondo con creature viventi che ci comunicano che l’ambiente è positivo. Se ci guardiamo attorno, molti spazi che viviamo – tra uffici, abitazioni, locali educativi e sanitari – creano nel nostro cervello una reazione simile a quella che possiamo avere nel deserto del Sahara. Se rimaniamo immersi troppo a lungo in questi luoghi, la nostra attenzione cala, la tensione cresce, non riusciamo a entrare in contatto con noi stessi e con il nostro benessere. E, allora, dobbiamo allontanarci dal deserto artificiale. Negli ultimi anni, sono fiorite le ricerche e le sperimentazioni nell’ambito degli asili nel bosco, della creazione di giardini ad hoc connessi alle strutture sanitarie e di riabilitazione (tanto per i pazienti quanto per familiari e personale curante); è esplosa l’attività di immersione nella foresta (forest bathing) o, più semplicemente, la frequentazione degli ambienti aperti naturali. Perché, nel nostro cervello, che è antico quanto la nostra specie, ancora sentiamo che il verde rappresenta per noi qualcosa di bello. Qualcosa che più giusto non potrebbe essere.